Se al posto del Nobel dessimo al personale sanitario un salario migliore?

Tratto da huffingtsonpost.it

L’impressione è che il premio Nobel per la Pace sia diventato negli anni una delle lavatrici dove inserire le coscienze sporche. È come se tutto ciò che genera dolore, disperazione e morte avesse bisogno di un’altra verità, di una narrazione romantica che elimini il problema reale e trasformi qualcuno in eroe per cancellare le colpe di tutti.

Nella tempesta migranti, Lampedusa restò l’unico scoglio sul quale vite umane potevano aggrappare la loro speranza di vita. Gli abitanti dell’isola offrivano riparo e uomini e donne in fuga da guerre e fame, l’idea fu: candidiamo Lampedusa a Nobel per la Pace. Che se poi mancano le politiche di integrazione è un altro discorso.

Il Nobel dunque come risarcimento, quello che ora secondo i proponenti toccherebbe al personale sanitario italiano, eroico nel fronteggiare per primo in occidente la furia della pandemia da Covid-19. L’idea è suggestiva, basta ricordare le foto con i volti di medici e infermieri segnati dalla stanchezza e dall’elastico delle mascherine.

Oltre 400, tra medici e infermieri, sono morti di Covid, il virus contratto nel tentativo di salvare ancora una vita umana. Sarebbe bello vedere trionfare al Nobel chi ci ha difeso dalla morte, anche se oggi sfugge il perché, a un anno dall’esplosione della pandemia, i sanitari italiani non dovrebbero condividere quello strameritato premio con i colleghi cinesi, cileni, inglesi…

Anzi, tra le questioni sanitarie e geopolitiche, forse una menzione in più per il trionfo della verità e della scienza la meriterebbe il dott. Li Wenliang, il medico cinese che a Wuhan per primo denunciò la comparsa del nuovo virus letale, trovando discredito dai colleghi e persecuzione dalle autorità.

E se invece al nostro personale sanitario offrissimo un salario più congruo? O i turni di lavoro previsti dagli standard internazionali? O lo sviluppo di carriera basato sul merito?

Pensiamo per un attimo alla professione di infermiere, quella che più è cambiata all’interno del sistema sanitario. In Italia gli infermieri sono 450.000. Di questi circa 270.000 sono dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale. Chi oggi fa ingresso alla professione è laureato in scienze infermieristiche, una triennale. C’è chi poi intraprende anche un percorso magistrale. Hanno assunto sempre maggiori competenze. Affiancano in modo diverso i medici, in un progetto di sanità che guardava a efficienza e qualità.

In Italia, secondo FNOPI, la Federazione degli ordini delle professioni infermieristiche, negli ospedali ne mancano 55.000 per sopperire a vuoti d’organico che dovrebbero allarmare. Le buone pratiche internazionali dicono che ogni struttura dovrebbe garantire l’assistenza di un infermiere ogni sei pazienti. In Italia la media è di uno ogni dieci-undici pazienti. In alcune regioni c’è un infermiere ogni diciannove pazienti, cioè siamo a oltre il triplo del lavoro.

Questo con due effetti: assistenza peggiore, turni massacranti, rischio più alto d’errore. E per capire dove può arrivare il dramma bisognerebbe andare a vedere nelle RSA, le residenze sanitarie assistenziali, proprio quei luoghi che durante la prima ondata di Covid sono diventati veri e propri centri di contagio e morte degli anziani. I medici ospedalieri, con maggiori responsabilità e analoghi problemi, organici risicati e stipendi tra i peggiori d’Europa, sono nelle stesse condizioni generali.

Li Wenliang è morto di Covid il 6 febbraio del 2020.

Quello per la pace è l’unico dei Nobel al quale viene attribuito nel mondo un esplicito valore politico. Il personale sanitario lo assegnerebbe volentieri a quel governo capace di metterlo in condizione di operare in modo universale, attraverso un’organizzazione che dia loro uno stipendio adeguato, strumenti di protezione, ospedali efficienti dove potere curare tutte le persone.

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